Testi di Carlo CAPELLO, Pietro CINGOLANI, Francesco VIETTI

Città e nuove migrazioni

Il Novecento è stato il secolo delle città e delle migrazioni. Se nella storia delle società umane le persone avevamo sempre vissuto prevalentemente in ambienti rurali, per la prima volta all’inizio di questo nostro XXI secolo la maggioranza degli esseri umani del pianeta risiede nelle città. Questa trasformazione epocale è l’esito dello straordinario processo di inurbamento cui si è assistito negli ultimi cento anni. Si tratta di una delle dimensioni più visibili dei movimenti migratori, di scala locale e globale, che rendono appropriato definire quella attuale come “l’era delle migrazioni”.

Torino è un buon esempio di questo fenomeno. La nostra città è infatti il frutto delle migrazioni: prima regionali, poi nazionali e infine internazionali. È stato in particolare il flusso di nuovi cittadini provenienti dal Meridione d’Italia, nei decenni del secondo dopoguerra, a trasformare Torino: decine di migliaia di persone che trovarono lavoro per lo più nella grande industria e che presero casa nei nuovi quartieri della città, da Mirafiori alla Falchera.

Le nuove migrazioni internazionali che hanno raggiunto Torino a partire dagli anni Novanta si sono sviluppate in un contesto economico e urbanistico molto diverso: da un lato la crisi economica che ha colpito la città negli ultimi decenni ha reso meno numerose e più precarie le occasioni di lavoro; dall’altro, sono state le ex barriere operaie e quartieri relativamente centrali come Aurora e San Salvario a connotarsi come zone di primo insediamento degli immigrati.

Sono trascorsi ormai più di quarant’anni dall’inizio di questa nuova fase della storia cittadina, e oggi le migrazioni costituiscono un elemento strutturale della vita sociale, economica e culturale di Torino. Secondo i dati più recenti, a inizio 2022 i cittadini stranieri residenti sono 131.000, pari a poco meno del 15 per cento della popolazione totale. Tra questi, circa un terzo è costituito da cittadini comunitari originari della Romania, cui seguono per numerosità le collettività provenienti da Marocco, Cina, Perù, Nigeria, Egitto, Albania, Filippine, Moldavia e Bangladesh. Barriera di Milano è il quartiere della città con il maggior numero di residenti di origine straniera, oltre 17.000.

Il periodo ormai lungo trascorso dall’arrivo dei primi “pionieri” dell’immigrazione rende in ogni caso molto complesso il panorama sociale della città e ci invita a mettere in discussione le stesse categorie di “immigrati” e “stranieri” che vengono normalmente usate per descrivere questo fenomeno. Persone che hanno trascorso a Torino ormai la maggior parte della loro vita, giovani nati e cresciuti nella nostra città, famiglie che qui si sono formate e che qui immaginano il proprio futuro… al di là della condizione giuridica in cui ci si trova, del possesso o meno della cittadinanza italiana, occorre tenere in considerazione quelle dimensione di “cittadinanza di fatto” che si esprimono nella vita quotidiana

di abitanti di Torino, di lavoratrici e lavoratori nei più diversi settori dell’economia locali, di studentesse e studenti delle scuole e dell’università, di membri attivi della comunità. Da questo punto di vista, ogni quartiere della città ci restituisce l’immagine di una Torino che oggi non può e non vuole fare a meno di tutte quelle migliaia di cittadini che, con radici e legami che li connettono ad altre città e paesi di ogni parte del mondo, si sono in questi anni fatti torinesi.

Per raccontare la Torino delle migrazioni nel 2011, nell’ambito dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità Nazionale, Il Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà ha allestito una mostra su questi temi. La raccolta di fotografie, mappe, video e testimonianze orali ha permesso di ricostruire trent’anni di storia urbana, attraverso gli occhi e le parole dei nuovi abitanti. La scelta di affidare la curatela a tre antropologi, Carlo Capello, Pietro Cingolani e Francesco Vietti, non è stata casuale. L’approccio antropologico, infatti, privilegia il punto di vista dei migranti, dei cui sistemi di significati gli studiosi si fanno traduttori. È solo attraverso l’esperienza diretta e la condivisione etnografica che sono emerse le tante immagini di città messe in mostra; il materiale fotografico selezionato è stato realizzato in anni diversi da fotografi professionisti e non, da migranti e dagli stessi antropologi. A questo sono state aggiunte le immagini presenti nei quotidiani e nella stampa illustrata, che rivelano lo sguardo pubblico dominante sugli immigrati.

Il presente riallestimento consiste in una selezione e in un aggiornamento del materiale prodotto per la mostra del 2011. Grazie allo stimolo e alla collaborazione di Porta delle Culture, una rete di associazioni che a Porta Palazzo promuovono il dialogo interculturale e interreligioso, si è deciso di scegliere parte del materiale visuale originario, e lo si è organizzato in sei sezioni: “Abitare a Torino”, sugli spazi della casa, sulle famiglie e sulle relazioni comunitarie; “In viaggio per Torino”, sul racconto di arrivi, partenze e ritorni, anche attraverso le pagine dei quotidiani; “Aspirazioni e fatica”, sui mondi del lavoro; “Le religioni, tra spiritualità e identità collettive”, sulle manifestazioni pubbliche e domestiche della diversità religiosa; “Le scuole torinesi”, sugli sfaccettati mondi dell’educazione formale e informale; “Il diritto alla città”, sugli spazi di socializzazione, di amicizia e di solidarietà, con particolare attenzione alle nuove generazioni.

A queste sezioni se ne aggiunge una finale, aperta, che si realizzerà con il contributo delle associazioni della rete Porta delle Culture. Durante il periodo espositivo, saranno via via aggiunti nuovi materiali, fotografici e non solo, che permetteranno di gettare uno sguardo sul futuro prossimo di Torino.

Abitare a Torino: luoghi fisici e spazi di relazione

“In Marocco è rimasta la casa dei nostri genitori, vuota, non la abita nessuno… la mia casa non l’ho finita, è lì in fase di costruzione, è interrotta, non l’abbiamo finita ma non l’abbiamo voluta vendere, decideranno i miei figli. Gli alberi che quando siamo partiti erano piccoli, adesso producono le noci. È molto doloroso parlarne.”

Come racconta Latifa, immigrata dal Marocco, la casa rappresenta, tanto in Italia quanto nei paesi d’origine, una risorsa fondamentale, luogo fisico che produce stabilizzazione e sicurezza, e allo stesso tempo spazio degli affetti e delle identità. Le soluzioni residenziali dei migranti sono molte, dalle sistemazioni di fortuna, agli accampamenti informali, agli alloggi condivisi, a case autonome in affitto o in proprietà. Al migliorare delle condizioni spesso si abbandonano le zone di primo insediamento, come Porta Palazzo e Barriera di Milano, e si cerca casa in altri quartieri, nelle periferie o nei paesi dell’hinterland. Questi percorsi dipendono da scelte soggettive ma sono allo stesso tempo determinati dalle politiche urbane e abitative portate avanti dalle istituzioni pubbliche e dalle azioni degli attori del mercato privato. Diversi proprietari torinesi, per esempio, preferiscono non affittare a stranieri.

L’interno delle abitazioni è il palcoscenico in cui, attraverso l’arredamento e l’organizzazione degli spazi, si richiama alla memoria la casa lasciata nei paesi di provenienza o si risponde a nuovi gusti e bisogni legati alla vita in Italia.

Alla dimensione domestica sono anche legate le relazioni sociali più importanti, quelle familiari. I processi di divisione, ricostituzione e formazione di nuovi nuclei in migrazione sono molteplici. Dall’incontro tra modelli differenti nascono anche variazioni nelle pratiche sociali. Per esempio, è in continuo aumento il numero di coppie con componenti di nazionalità diversa, così come cominciano a diffondersi anche a Torino coppie omosessuali e omogenitoriali di origine straniera.

Fare famiglie e fare casa è dunque, per tutti questi motivi, un’esperienza processuale, graduale e reversibile, che travalica i confini tra privato e pubblico, e tra individuale e comunitario.

In viaggio per Torino

“Quest’anno abbiamo in programma di tornare in vacanza in Perù, per far conoscere a nostro figlio, che è venuto via quando era molto piccolo, qualcosa dell’arte, della cultura del suo paese. Andremo a Cuzco, che anche noi non abbiamo mai visto”.

Le parole di Pucalpa, originario del Perù ma torinese ormai da più di vent’anni, mettono ben in luce la complessità dei viaggi di migrazione: ci sono senz’altro i viaggi di andata, quelli che conducono in Italia, che possono segnare una cesura nelle biografie dei migranti e che ci colpiscono soprattutto quando avvengono secondo modalità drammatiche e pericolose, come nel caso degli attraversamenti di fortuna del Mediterraneo. Ma poi vi sono molte altre forme di mobilità, che tendono a passare inosservate: i ricongiungimenti familiari; i rientri “a casa” per andare a trovare i propri amici e parenti e investire i frutti del lavoro all’estero; le vacanze delle “seconde generazioni” nel paese dei propri genitori; i ritorni definitivi di chi pone fine all’esperienza migratoria; le “migrazioni secondarie” di chi, dopo essere immigrato in Italia, si sposta verso altre destinazioni; e ancora, le mobilità interne al nostro paese, poiché molto spesso la migrazione non si ferma al primo approdo, ma prevede successivi spostamenti tra città e città, o anche tra contesti urbani e rurali.

In questa sezione della mostra, mettiamo in dialogo le immagini che raccontano il ciclo di arrivi, partenze e ritorni che connettono Torino ad altre città d’Europa e del mondo attraverso i viaggi dei migranti, con la rappresentazione che dell’immigrazione è stata data nell’arena pubblica e mediatica. Le pagine del quotidiano “La Stampa” ci mostrano come a cavallo tra XX e XXI secolo i mezzi d’informazione locale hanno raccontato il fenomeno migratorio e la trasformazione dei quartieri torinesi in relazione alla presenza di cittadini immigrati. La narrazione emergenziale, così consueta in Italia quando si parla di migrazioni, lascia qui e là il campo a reportage e inchieste giornalistiche più attente alle dinamiche di medio-lungo periodo che, silenziosamente e quotidianamente, hanno reso l’immigrazione una componente “normale” e strutturale della realtà sociale, economica e culturale di Torino.

Emerge in ogni caso in queste pagine di giornale un problema centrale anche della ricerca scientifica sulle migrazioni: chi ha il privilegio di rappresentare “gli altri” e come si conquista il diritto ad auto- rappresentarsi? Quali voci riescono a farsi udire sulla scena pubblica quando si parla di immigrazione?

Aspirazioni e fatica: il lavoro

“Adesso ho quattro lavori: badante di domenica, colf durante la settimana, a volte baby-sitter, e la mediatrice culturale. Prima di arrivare avevo la speranza di lavorare un anno e cambiare la mia vita. Così vedevo l’Occidente, uno spazio migliore dove le libertà erano motore dello sviluppo. Invece ho vissuto i primi anni in un mondo feudale, quando facevo la badante”.

La testimonianza di Irina, migrante moldava da molti anni residenti a Torino, rispecchia bene – nel suo rinvio alle speranze di miglioramento e alle condizioni medievali di impiego – il paradosso del lavoro migrante. La ricerca di un lavoro è ancora la principale motivazione alla base del progetto migratorio, incarnazione delle aspirazioni di benessere e di mobilità sociale. Il lavoro, inoltre, rimane il vero canale di inserimento nella società di arrivo e, in alcuni casi, di miglioramento sociale, ma spesso le speranze dei migranti si infrangono su una realtà fatta di sotto-occupazione, sfruttamento, mancanza di diritti.

Gli immigrati si inseriscono soprattutto in alcuni settori del mondo del lavoro – per via di fattori come la discriminazione, i problemi con i titoli di studio esteri e l’influenza delle reti sociali – concentrandosi nei cosiddetti lavori delle 5 P: Poco pagati, Precari, Pesanti, Penalizzati socialmente e Pericolosi. Come mostrano anche le foto qui raccolte, ritroviamo un alto numero di migranti nella piccola industria e nell’edilizia, nei servizi a bassa qualificazione e nei lavori di cura. Poiché però le possibilità di mobilità sociale sono, in questi ambiti, piuttosto limitate, è piuttosto all’auto- imprenditorialità – in particolare nel commercio, nella ristorazione e nell’edilizia – che molti migranti si rivolgono per migliorare le loro condizioni economiche e di lavoro.

Nel mondo del lavoro si vedono all’opera le dinamiche che conducono all’inclusione subalterna dei migranti all’interno della nostra società: al di là dei non pochi casi di esclusione e di marginalizzazione, è un più generale inserimento dei migranti nei gradini più bassi della gerarchia occupazionale e di classe ciò a cui si assiste.

Le molteplici crisi – da quella finanziaria del 2008 a quella dovuta alla pandemia e alla guerra in Ucraina – vissute in questi anni a Torino e in Italia, hanno ovviamente forti ripercussioni sulla situazione delle lavoratrici e lavoratori migranti, soggetti a condizioni di maggiore precarietà e insicurezza, rendendo ancora più difficile la loro situazione. Ma, ci sembra di poter dire, le aspirazioni al miglioramento personale e familiare, vero motore delle migrazioni, rimangono più forti di ogni crisi.

Le religioni, tra spiritualità e identità collettive

“Noi abbiamo la festa il venerdì, il venerdì i marocchini vanno alla moschea. Una volta qua non c’erano le moschee, qua a Torino, adesso è come in Marocco, adesso c’è 5 o 6 moschee, adesso si sta bene qua, perché si trova tutto, la carne halal, la moschea, la roba marocchina, i vestiti”

Come ci ricorda Abdel, proveniente dal Marocco e residente a Torino dal 2001, è innegabile l’importanza della vita religiosa all’interno dell’esperienza migratoria. Per i migranti, la religione ha infatti una doppia valenza: alla dimensione spirituale si affiancano l’affermazione della propria identità e aspetti comunitari, ben richiamati dalle parole di Irina: “Io sono cristiana ortodossa, ma non posso dire che vado tutte le domeniche. C’è sempre molta gente a messa perché non si va solo per pregare ma anche per vedersi, per discutere, diventa un luogo della comunità in qualche modo”.

L’immigrazione ha ampliato il ventaglio delle confessioni religiose presenti in città. Cristiani ortodossi, cattolici, evangelici e pentecostali e musulmani sono i gruppi religiosi più rappresentati. Non bisogna tuttavia trascurare la presenza di gruppi più ridotti (come induisti, buddisti, cristiani copti…) né il numero non indifferente di atei e non praticanti.

Il sorgere di nuovi luoghi di culto, come le sale di preghiera musulmane evocate da Abdel, spesso al centro di polemiche, è in realtà testimonianza del desiderio di integrazione e di stabilità da parte dei migranti. Ciò avviene non senza attriti, ma non è forse vero che questi ultimi hanno a che fare con questioni identitarie e politiche piuttosto che con la religiosità in sé?

Le scuole torinesi: laboratori di cittadinanza

Il pluralismo religioso rappresenta una sfida anche per una delle istituzioni più importanti per la socializzazione delle nuove generazioni di migranti e per i loro figli: la scuola.

Nell’anno scolastico 2021/2022 sono stati 20.500 gli studenti con cittadinanza non italiana che hanno frequentato le scuole della città di Torino, quasi il 20% di tutta la popolazione studentesca. Questi studenti si trovano distribuiti ormai in tutti gli ordini, dalla scuola primaria ai diversi percorsi di secondaria di secondo grado e provengono da 152 Paesi diversi, in primo luogo dalla Romania (il 30%), seguita dal Marocco, dall’Albania e dalla Cina.

L’etichetta “allievi stranieri con cittadinanza non italiana” è onnicomprensiva di una molteplicità di storie di arrivi e rientri dall’estero, di percorsi di socializzazione svolti solo in Italia, ma non necessariamente in ambienti italofoni. Il 69% di questa popolazione, ovvero 14.200 studenti, è nato

in Italia da genitori di origine straniera. Un numero che è molto cresciuto negli ultimi anni e che è destinato ad aumentare.

Questi studenti, anche se non è loro riconosciuta la cittadinanza italiana dal punto di vista legale, condividono in tutto e per tutto le esperienze di socializzazione e formative dei loro compagni, e allo stesso tempo hanno bisogni specifici, connessi al muoversi fra ambienti linguistici differenti, a questioni identitarie e di appartenenza culturale multipla.

La scuola pubblica continua a rappresentare l’ambiente fisico e sociale dove meglio si può valorizzare tutta questa diversità, costituendo uno spazio di eguaglianza e un trampolino per la mobilità sociale, oltre ad essere un presidio importantissimo nei territori più fragili della città.

Il diritto alla città

“Il loro sguardo è straniato, colmo di gioia mista a quello strano smarrimento di chi si trova in un posto che non è suo. Non sono nati in questo luogo, ma lo sentono loro. La città li avvolge nel suo calore estivo, ma gli occhi dell’indifferenza li stringono nel loro rifugio intimo, nell’abbraccio”. Così scrive Younis Tawfik nel suo racconto “Sotto la Mole”. In questo poche righe emerge una questione importante: la migrazione non si risolve nella sola dimensione del lavoro, pur fondamentale, e il rapporto con la città non può essere ridotto a una questione di produzione e consumi. Per tutti i cittadini, migranti e non migranti, di prima o di seconda generazione, si pone il tema di un più ampio “diritto alla città”, come ha giustamente sostenuto il filosofo Henri Lefebvre. Ossia di un accesso pieno al vivere urbano, andando oltre il piano dei bisogni essenziali e potendo fruire delle sue opportunità e risorse e partecipando attivamente alla vita sociale e culturale. Questa condizione richiama evidentemente la necessità di avere tempo libero, la disponibilità di luoghi di incontro e di socializzazione, e continui processi di ridefinizione identitaria.

Ritrovarsi con i propri connazionali, partecipare insieme a loro alle attività culturali promosse dalle associazioni della diaspora, celebrare feste nazionali e religiose e frequentare ristoranti, locali o parchi pubblici può rappresentare un modo per sentirsi parte di una “comunità”, coltivare affetti e interessi comuni, rafforzare legami di solidarietà che hanno una funzione rassicurante e che combattono la nostalgia per il paese d’origine. D’altro canto, soprattutto per i giovani e le seconde generazioni, a prevalere spesso è uno sguardo rivolto non tanto al passato, quanto al futuro. Divertirsi con i propri coetanei, a prescindere dalle proprie storie familiari, è allora soprattutto un modo per muoversi insieme verso l’età adulta, in una città più cosmopolita di quella conosciuta dai propri genitori, mettendo in gioco le proprie identità molteplici.